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IMMIGRAZIONE: FINESTRE DI SPERANZA TRA GLI ULIVI DI CALABRIA

Da Il Crotonese del 22 ottobre 2011 N. 122

La realtà dei rifugiati tra incontri e storie. L’esperienza di accoglienza di Agorà Kroton

                                      di Assunta Scorpiniti

 “Sono stato condannato al carcere, alla fustigazione e al pagamento di multe, perché chiedevo democrazia, diritti umani e criticavo Basij e il leader assoluto dell’Iran, il signor Khameinee. Sono stato condannato a sei mesi di prigione, a 20 frustate, ad essere privato dei diritti sociali. Ho trascorso 40 giorni in cella d’isolamento, in condizioni inumane, sottoposto a torture. Ho dovuto resistere a prolungati periodi di insonnia, fino a quattro giorni. Bendato, venivo colpito nel corpo, e minacciato di essere messo a morte…”.

Così, in una memoria che si è fatto tradurre, per via del suo incerto italiano, Mehdi Nakl Ahmadi, 32 anni, giornalista iraniano della grande provincia di Khorasan, nonché rifugiato politico nel nostro paese, mi offre le pagine più dolorose della sua vita, che oggi, per fortuna, si svolge altrove, nell’Italia dei migranti e delle loro storie. Sono presenti, in grandissimo numero anche in Calabria, terra d’approdo, quindi di residenza o di transito, come in questo caso, di uomini, donne, anziani e minori in cerca di soluzioni di vita e opportunità.

Il capitolo nuovo, in tale prospettiva, il giovane iraniano ha iniziato a scriverlo proprio nella nostra regione, insieme alla moglie Azam Bahrami, sua coetanea e compagna nell’impegno per i diritti e il riscatto del suo popolo sofferente sotto la dittatura politica e il governo ultraconservatore guidato da Ahmadinejād.

Ho incontrato Medhi e Azam in una calda giornata di agosto, a Crotone, nelle strutture di Agorà Kroton, la cooperativa sociale diretta da Pino De Lucia, che gestisce attività e programmi di accoglienza “civile e democratica” a immigrati, profughi e rifugiati; per me, la tappa di un nuovo percorso di ricerca nel mondo delle migrazioni, iniziato tanti anni fa, con l’incontro di tre generazioni di corregionali cuore dell’Europa, e, ora, mi pone di fronte alle nuove presenze nei nostri luoghi, in continuità ideale con la perenne esperienza della mobilità umana e in parallelo al processo che ha cambiato l’Italia da paese d’emigrazione a meta d’immigrazione.

L’occasione è preziosa per una conoscenza antropologica di mondi lontani, rivelati, in tale contesto, dalle storie dell’umanità che attraversa il Mediterraneo e ci viene incontro; anche, per l’esigenza di conoscere e comprendere questa realtà, di certo diversa dalla nostra, ma bisognosa d’essere accolta senza incertezze e paure che possano degenerare in discriminazioni o, ancor peggio, nel razzismo, oggi definito con il termine più in voga, ma identico nella sostanza, di xenofobia. Ancor più, è urgente affrontare con equilibrio e senso di responsabilità situazioni come quelle, esplosive per il sovraffollamento, dei centri di accoglienza, o, peggio, di non osservanza delle leggi del nostro paese da parte di frange di immigrati; l’impegno è di convivenza democratica e riguarda tutti, anche se, nelle proporzioni che l’immigrazione va assumendo in Italia, spetta al governo nazionale farsene carico in modo più forte e incisivo, regolandola con politiche serie e umanità e non considerandola, come avviene, un’emergenza di questi anni.

L’opinione pubblica calabrese è stata colpita, nelle scorse settimane, dalla notizia del clamoroso tentativo di suicidio di Mahamoudu, giovane della Guinea-Bissau che, non vedendosi riconoscere il diritto d’asilo, dopo sei mesi nel Centro di prima accoglienza di S. Anna, a Crotone, si è arrampicato su un albero, di fronte alla sede municipale della città, con un cappio al collo, minacciando di togliersi la vita; un riflesso, forse impercettibile, ma indicativo, della complessità internazionale del problema che, afferma l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati António Guterres, “sta rendendo sempre più difficile perseguire soluzioni per gli oltre 43 milioni di rifugiati, sfollati interni e apolidi di tutto il mondo”; e tuttavia, pur nella consapevolezza di quanto lenta e delicata sia la costruzione di comunità aperte e tolleranti, “è necessario riconoscere quello della non-discriminazione come principio centrale di diritti umani”.

Da parte mia, non riesco a cancellare l’immagine che, nello scorso mese di aprile, ha attraversato il mare, il mondo mediatico e il nostro sentimento umano: quella del bambino del tragico naufragio di Pantelleria, stretto tra le braccia del padre migrante, sulla “carretta” stracolma, scossa dalla tempesta e dalla disperazione di quei momenti, mentre due donne che erano con loro, annegavano in un solo metro d’acqua.

ALI ED EDEN NEI LORO PERCORSI EMBLEMATICI

Le storie sono il documento della storia, quella con la “s” maiuscola, perché è fatta dagli uomini, e agli uomini che le apprendono, offrono la possibilità di identificarsi e comprendere, così, i piccoli e grandi avvenimenti entro cui si svolgono, cogliendone il senso e la complessità. Nasce da qui, il bisogno di raccontarle e farle vivere oltre il tempo, anche per quelli di altre età.

Come la storia di Ali Yusuf Liban. Lo incontro a Sovereto di Isola Capo Rizzuto, nella struttura di Agorà Kroton adibita a Centro di Seconda Accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo politico, istituita accanto alla comunità terapeutica residenziale per tossicodipendenti, all’origine della scelta sociale della cooperativa. Il giovane somalo vi ha trovato ospitalità, insieme a 16 coetanei arrivati sulle coste italiane con i più recenti sbarchi; li vedo intenti in lavori di rinnovamento delle stanze, dentro una corte di costruzioni, adornata da un chiosco in pietra, rampicanti, ibiscus, ulivi e altre piante mediterranee che risaltano nella luce dell’ora meridiana, come i loro volti colorati.

Raccontano il mondo, quelle facce, e una serenità conquistata a dispetto delle esperienze drammatiche. Anche quella di Ali Yusuf, che mi saluta recando, compiaciuto, un recipiente pieno di pomodorini maturi, coltivati da lui stesso.“In ogni pietra che c’è qui, in ogni albero, c’è la storia di un uomo venuto da lontano; ognuno di loro ha curato questo luogo, lasciando qualcosa di suo”, dice, con visibile emozione, Pino De Lucia, che mi ha accompagnato e s’intrattiene con quei ragazzi con fare un po’ da fratello maggiore, un po’ da padre.

Sono quattro anni che Ali è in Italia, in regola con i permessi; ne aveva solo 17, quando ha lasciato Mogadiscio, per intraprendere un avventuroso cammino verso la salvezza e la sua dignità umana. Fuggiva dalla capitale somala, dov’è nato, come, del resto, stavano facendo i 350 mila suoi connazionali stimati dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. In quel tragico 2007, all’indomani di una feroce azione militare etiopica, che colpiva un paese senza riferimento istituzionale, Mogadiscio era, infatti, precipitata nel caos di scontri violentissimi che contrapponeva truppe etiopi e governo di transizione ai cosiddetti “signori” della guerra e milizie islamiche; nel contempo, viveva la crisi umanitaria più grande della sua storia, a causa delle epidemie e della siccità. Un contesto tragico di fughe e di terrore, in cui il giovane Ali, dopo aver visto mille volte la morte in faccia, si è trovato ad assistere all’uccisione della madre e della nonna e, subito dopo, ad avvertire la carezza dell’affetto familiare: era lui, il prescelto per la salvezza; il padre e i fratelli non avevano esitato a vendere i pochi beni, per racimolare il denaro necessario a farlo andare lontano da quel luogo di fame e sangue.

Ali si racconta nella dispersione dei somali, la cui consistenza, nei vari paesi, è valutata in milioni di profughi e rifugiati; un viaggio lungo, durissimo, per terra e per mare: “Dal mio paese sono fuggito in Etiopia, dove mi hanno arrestato perché non avevo i documenti; quando mi hanno liberato, ho trovato chi mi ha portato in Sudan, fino al deserto libico che ho attraversato in diciannove giorni, con i miei compagni, soffrendo e rischiando la vita. A Tripoli, dopo una lunga attesa, ci hanno finalmente imbarcati per l’Italia”. Ventotto persone su un minuscolo natante: “Alcuni erano malati, per fortuna a Lampedusa ci hanno accolto bene e quelli che avevano bisogno li hanno portati in ospedale”. Affidato a una famiglia siciliana, fino al compimento della maggiore età, nel 2008 Ali è arrivato a Crotone. Il giovane è ora impegnato in varie attività, all’interno della cooperativa sociale; la principale è “parlare”, come dice, con gli africani che giungono nel Centro di Prima accoglienza di S.Anna: un compito di mediazione culturale. La prospettiva, è nella tranquillità raggiunta: “Starò in Italia, farò qualunque lavoro, non posso più tornare indietro, il mio paese è finito… aiuto i miei familiari e spero, un giorno, di portarli in Italia”.

Il desiderio del ricongiungimento. L’ho conosciuto, nella sua intensità, attraverso le narrazioni delle donne calabresi che, da sole, raggiungevano i mariti emigrati in Germania (il periodo è dalla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo), dopo aver lasciato i figli in custodia dei parenti o dei nonni; un desiderio soddisfatto solo dopo tempo, in migliori condizioni legislative e sociali.

Donna migrante è Eden, giovanissima etiope che incontro nella struttura di Agorà riservata agli uffici e a una Casa-Famiglia, sita in contrada Farina di Crotone; anche lei si è dovuta separare dalla figlia più grande, lasciata, a quanto pare, in mani sicure, prima di una rischiosa traversata via mare, da Tripoli a Lampedusa, con il marito e la loro bimba più piccola. Bellissima, davvero. Sgambetta nell’ampia sala a piano terra, dove ci troviamo, emettendo gridolini di gioia per quanto vede e tocca. I vocalizzi squillanti coprono le

parole pacate con cui la mamma, nella lingua d’origine, mi offre il suo racconto mediato da Solomon, un somalo integrato nella cooperativa crotonese.

La famiglia, appartenente alla schiera di migranti e rifugiati in Libia a causa della povertà e dei massacri dei loro paesi dell’Africa sub-sahariana, è venuta in Italia quattro mesi fa; in pratica, a breve distanza di tempo dalla rivoluzione di Bengasi, che ha aperto il fronte libico della protesta dei

 

paesi del Nord dell’Africa e del mondo arabo. Un grido d’allarme lanciato dal Consiglio Italiano per i Rifugiati, ha fatto conoscere al mondo il loro dramma nel dramma, ovvero le aggressioni e i linciaggi subiti in Libia da somali, etiopi ed eritrei, nel contesto del conflitto armato che ha opposto gli insorti alle forze fedeli a Gheddafi. Il rischio della vita, non solo per i combattimenti, è per la loro pelle nera, che li fa associare ai mercenari del Ciad e della Nigeria assoldati dal dittatore: “Non potevamo stare più in Libia, siamo fuggiti. Volevamo venire in Italia. Ci sono voluti tanti soldi. Abbiamo lavorato quattro anni”. Per un sogno: “Una nuova vita. Per noi e, soprattutto, per mia figlia… deve essere diversa da quella che ho vissuto io”.

Nel ricordare i giorni in mare, a condividere un’imbarcazione stretta e fatiscente con altri 250 migranti in fuga, è doloroso: “E’ stato un sacrificio grandissimo, con la bambina così piccola… abbiamo avuto paura di morire, in mezzo al mare la barca si è rotta, potevamo annegare tutti, per fortuna un elicottero ci ha visti e sono venuti a salvarci”. Si illumina, invece, Eden, nel richiamare alla mente il momento dello sbarco a Lampedusa: “Sentivo che stavo nascendo di nuovo…”. La destinazione nel Centro di S. Anna, a Isola, è stata positiva; dice che sono stati bene, per il tempo che è servito all’identificazione e a ottenere lo status di rifugiati che permetterà loro di soggiornare, tutelati nei diritti, in Italia, a realizzare il progetto di vita: “Cerchiamo un lavoro, uno qualunque, e una casa, fuori dal centro; abbiamo l’altra figlia che ci aspetta”.

MEDHI E AZAM NELLA LOTTA PER I DIRITTI UMANI IN IRAN 

Eccole, dunque, le storie dell’immigrazione sulle rotte del Mediterraneo, compresse su imbarcazioni affollate e traballanti. Storie che siamo abituati a leggere nella complessità del fenomeno e non nella realtà di persone con vicende quasi sempre tragiche; con sentimenti, affetti familiari, esigenze primarie ed esistenziali da soddisfare e luoghi, dell’anima e della fuga. Perché quelli che arrivano, sperando nella protezione internazionale, non partono mai dal loro paese per libera scelta o desiderio di progresso, come facevano i nostri emigrati.

Nella ricerca della sopravvivenza, Ali ed Eden hanno storie emblematiche; Azam e Medhi, i coniugi iraniani già citati, hanno portato, sullo stesso percorso, l’impegno per i diritti di un popolo, il loro popolo amato. Entrambi trentaduenni, si sono conosciuti all’università di Birjand, dove si sono laureati in fisica nucleare ed hanno conseguito vari master. Contestualmente all’insegnamento nelle scuole di secondo grado (Medhi è stato anche docente universitario), è maturato l’attivismo politico e culturale in uno dei partiti più importanti dell’Iran (Etemad-melli) e con collaborazioni giornalistiche, nel cui ambito hanno denunciato le violazioni dei diritti umani nel loro paese.

Azam ha voluto unire all’impegno la passione letteraria, con la pubblicazione di racconti e raccolte poetiche e, nel febbraio di quest’anno, del volume intitolato “Una donna in due ruoli”, dove l’ampia cornice delle limitazioni politiche e religiose fa da sfondo a donne iraniane divise tra il tradizionale ruolo casalingo e l’impegno sociale e lavorativo, “ma sempre in posizione subalterna rispetto all’uomo”; ci sono grandi problemi, oggi, per la donna in Iran, spiega, in buon italiano, Azam, ma molte “si attivano per la libertà e la democrazia, scendendo in strada a protestare, non solo quelle giovani, ma anche le anziane, con i figli in prigione”. Ce ne sono tante, nel Movimento Verde, di lotta per i diritti, presente in Iran e nella sua diaspora.

Impegno civile e politico, dunque, che comporta, com’è successo ai due coniugi, il divieto di insegnare nelle scuole e la condanna al carcere.

“Conoscevo Pavarotti, Andrea Bocelli, la Toscana, gli alberi d’ulivo, il film      Nuovo cinema paradiso, il tricolore… l’Italia per me era questo”, racconta Azam, riavvolgendo il nastro della fuga da un Paese, per loro non più vivibile per la privazione della parola, di azione e della vita normale.

E’ Medhi a spiegare la situazione: “I giornalisti indipendenti vengono imprigionati per il solo crimine di aver riferito come stanno i fatti; gli attivisti civili della società, spediti in carcere o minacciati, non di rado messi a morte. Dalle giurie dei tribunali, solo sentenze oppressive. Individui appartenenti ad un partito, e sindacati di lavoratori indipendenti, non hanno il permesso di lavorare. La gente non ha libero accesso all’informazione.

Moltissimi studenti universitari e docenti si trovano in prigione, privati del diritto all’istruzione e alla cultura, perché criticano e protestano contro il governo e reclamano i diritti minimi. All’interno delle comunità esistono discriminazioni di sesso, religiose e etniche. La gente non crede nella libertà delle elezioni perché, di fatto, libere non sono. La povertà, l’ingiustizia e le differenziazioni sociali sono una minaccia interna”. Nonostante la repressione, c’è un anelito alla democrazia, che agisce, com’è noto, nei movimenti d’opposizione, “ma la dittatura, senza il supporto della comunità internazionale, è impossibile sradicarla…”.

La decisione di fuggire è maturata, nello scorso mese di marzo, in un paio di settimane, con la scarcerazione di Medhi. E’ Azam, stavolta, a raccontare: “Non sappiamo chi organizza i viaggi, ma siamo riusciti, con altre persone, a metterci in contatto, pagando molti soldi. Siamo stati sei mesi in Turchia, passando, con altre 15 persone, da un nascondiglio all’altro e nutrendoci solo di olive e di pane. Quando è arrivato il giorno della partenza, nel porto di Smirne, abbiamo atteso in piedi, fra gli alberi, per oltre 20 ore, prima di salire su una piccola barca con 38 uomini, 4 donne e 6 bambini: “Quello che è passato, per me ora è morto, lo scriverò un giorno”, dichiara, per la fatica di ricordare momenti drammatici, fino allo sbarco, avvenuto sulle coste calabresi, con il seguente invio a Crotone, al Centro di S. Anna: “Avevamo molti documenti della nostra attività, in Iran, è stato più facile essere riconosciuti come rifugiati politici – spiega Azam – c’è gente disperata perché resta nel campo per sei mesi, un anno… io penso che più di un mese non è possibile starci!”.

Ricorda, in quel contesto, l’incontro con donne della Nigeria, del Burkina Faso, della Somalia, dell’Afghanistan… “Mi sono avvicinata per conoscere le storie; fuggono dai loro paesi non solo perché non hanno lavoro, ma soprattutto per la mancanza di sicurezza; lasciano i figli perché non riescono a farli uscire, sperando un giorno di farsi raggiungere. A S. Anna si ritrovano in un luogo affollato, sottoposte a continui controlli, senza tante attenzioni, capire nulla, senza soldi, medicine o buoni vestiti per loro… ci vorrebbe una scuola, all’interno, che le aiutasse almeno a conoscere la lingua, il contesto culturale italiano, per iniziare a costruire la nuova vita”.

Per Azam e Medhi è un sogno che si sta realizzando, dopo il passaggio fondamentale dalla Cooperativa sociale Agorà Kroton: “Mister Pino De Lucia ci ha offerto un lavoro, si è attivato moltissimo per noi, come fa per tutti gli immigrati”; tra l’altro, hanno seguito corsi di lingua e di formazione per poter affrontare un impegno molto importante: convalidare i titoli universitari per poter svolgere il loro lavoro in Italia. Azam ne è particolarmente lieta: “Abbiamo avuto giorni difficilissimi, ma dal nostro arrivo in Calabria, si sono aperte, per noi, piano piano, tutte le finestre di speranza”.

Da circa un mese, i due giovani, con l’aiuto di De Lucia, si sono trasferiti a Torino, per studiare fisica specialistica (biomedica e ambientale) all’università e continuare nell’impegno per il loro popolo e il loro paese, dove pensano di ritornare, appena la situazione politica cambierà e non ci sarà, come ora, ad attenderli il carcere.

TANTE PAGINE D’ACCOGLIENZA

 È bella l’immagine delle finestre che si aprono, per descrivere la speranza che accompagna i viaggi degli immigrati, ma anche i percorsi esistenziali delle persone con difficoltà, verso il riscatto. Pensiamole come metafora della capacità di accoglienza della nostra terra, nonostante i problemi che possono derivare dal numero enorme di presenze, da carenze strutturali e nella gestione degli arrivi, da episodi di delinquenza da parte di gruppi o singoli fuori legge, tante volte per le enormi difficoltà incontrate nel passaggio migratorio.

Anche questo bisognerà raccontare. Per ora ci sono queste storie, raccolte a Crotone; mi piace racchiuderle nel grande libro della solidarietà, che, per tradizione ed esperienza, sta scrivendo la gente di Calabria. Nella metafora, ci sta anche quella prima pagina della cooperativa sociale Agorà, riempita con la vicenda dolorosa di un ragazzo di Fondo Gesù, tossicodipendente, che, una ventina d’anni fa, in una lettera pubblicata sul settimanale “Il Crotonese”, scriveva: “Trattatemi almeno come un cane… in questa città che mi emargina come un appestato”. Ci sta la scelta d’impegno, fatto, come dice Pino De Lucia, “di cuore e ragione”, che sa guardare all’uomo sempre e comunque, oltre le etnie, le provenienze, le difficoltà istituzionali e operative, le fragilità umane di ciascuno, anche di chi opera in questo campo.

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